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THE COMPACT KING CRIMSON eg records EGLP 68 2 LP 1986

49,00

Esaurito

Categoria:

Descrizione

PREMESSA: LA SUPERIORITA’ DELLA MUSICA SU VINILE E’ ANCOR OGGI SANCITA, NOTORIA ED EVIDENTE. NON TANTO DA UN PUNTO DI VISTA DI RESA, QUALITA’ E PULIZIA DEL SUONO, TANTOMENO DA QUELLO DEL RIMPIANTO RETROSPETTIVO E NOSTALGICO , MA SOPRATTUTTO DA QUELLO PIU’ PALPABILE ED INOPPUGNABILE DELL’ ESSENZA, DELL’ ANIMA E DELLA SUBLIMAZIONE CREATIVA. IL DISCO IN VINILE HA PULSAZIONE ARTISTICA, PASSIONE ARMONICA E SPLENDORE GRAFICO , E’ PIACEVOLE DA OSSERVARE E DA TENERE IN MANO, RISPLENDE, PROFUMA E VIBRA DI VITA, DI EMOZIONE E  DI SENSIBILITA’. E’ TUTTO QUELLO CHE NON E’ E NON POTRA’ MAI ESSERE IL CD, CHE AL CONTRARIO E’ SOLO UN OGGETTO MERAMENTE COMMERCIALE, POVERO, ARIDO, CINICO, STERILE ED ORWELLIANO,  UNA DEGENERAZIONE INDUSTRIALE SCHIZOFRENICA E NECROFILA, LA DESOLANTE SOLUZIONE FINALE DELL’ AVIDITA’ DEL MERCATO E DELL’ ARROGANZA DEI DISCOGRAFICI .

KING CRIMSON
the compact King Crimson

Disco Doppio 2 LP 33 giri , 1986, E’G Records , EGLP 68, marketed by Jem Records , USA (vinyl pressing country: UK, sleeve printing country : canada )

ECCELLENTI CONDIZIONI, both vinyls ex++/NM , cover ex++/NM .

I King Crimson sono un gruppo progressive rock inglese, nato nel 1969 e ancora attivo, anche se con una formazione completamente diversa, eccettuata la presenza di uno dei fondatori della band, Robert Fripp, considerato ormai l’anima del gruppo, e il vero e proprio “Re Cremisi”.

In tutta la storia della band, Robert Fripp
è stato sempre presente, anche se ha dichiarato che non si considera
affatto il leader del gruppo. Per lui i KC sono “un modo di fare le
cose”, e la coerenza musicale che si è mantenuta in tutta la storia del
gruppo, nonostante i frequenti cambiamenti dei membri, riflette questo
punto di vista.

Il nome King Crimson (Re Cremisi) venne coniato da Peter Sinfield (membro della prima formazione) come sinonimo di Beelzebub, principe dei demoni; secondo Fripp, Beelzebub sarebbe una forma anglicizzata dell’espressione araba
“B’il Sabab”, che significa “l’uomo con uno scopo”, nonostante
l’etimologia generalmente accettata sia che il termine provenga
dall’ebraico Ba’al-z’bub, che significa “il signore delle mosche”.

Nonostante i King Crimson abbiano avuto poco successo dal punto di vista della presenza sulle radio o in televisione,
hanno una vastissima discografia, suonano spesso dal vivo, e hanno un
seguito di appassionati più fedeli tra quelli degli altri gruppi
musicali contemporanei.

The Compact King Crimson is a 1986 compilation by King Crimson.

E’ una raccolta di brabi dai dischi anni ’80 e dal primo “Court of C.K.”

  • Interprete: King Crimson
  • Etichetta:  E-G
  • Catalogo: EGLP – 68
  • Data di pubblicazione: 1986
  • Supporto:vinile 33 giri
  • Tipo audio: stereo
  • Dimensioni: 30 cm.
  • Facciate: 4
  • Copertina apribile / gatefold, white paper inner sleeves

 

Brani / Tracks

  1. Discipline” (Adrian Belew, Bill Bruford, Robert Fripp, Tony Levin) – 5:01 (from Discipline, 1981)
  2. Thela Hun Ginjeet” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 6:27 (from Discipline, 1981)
  3. Matte Kudasai” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 3:48 (from Discipline, 1981)
  4. Three of a Perfect Pair” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 4:13 (from Three of a Perfect Pair, 1984)
  5. Frame by Frame” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 5:08 (from Discipline, 1981)
  6. Sleepless” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 5:24 (from “Sleepless” 12″ single A-side, 1984; mixed by Bob Clearmountain)
  7. Heartbeat” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 3:56 (from Beat, 1982)
  8. Elephant Talk” (Belew, Bruford, Fripp, Levin) – 4:36 (from Discipline, 1981)
  9. 21st Century Schizoid Man” (including ‘Mirrors’) (Fripp, Michael Giles, Greg Lake, Ian McDonald, Peter Sinfield) – 7:20 (from In the Court of the Crimson King, 1969)
  10. I Talk to the Wind” (Fripp, Giles, Lake, McDonald, Sinfield) – 6:06 (from In the Court of the Crimson King, 1969)
  11. Epitaph” (including ‘March for No Reason’ and ‘Tomorrow and Tomorrow’) (Fripp, Giles, Lake, McDonald, Sinfield) – 8:49 (from In the Court of the Crimson King, 1969)
  12. Red  (Fripp) – 6:17  (from Red , 1974)
  13. Cat Food  (Fripp, Sinfield, McDonald) – 2:46 ( from In the Wake of Poseidon. 1970)
  14. The Court of the Crimson King” (including ‘The Return of the Fire Witch’ and ‘The Dance of the Puppets’) (McDonald, Sinfield) – 9:22 (from In the Court of the Crimson King, 1969)

There are two titles missing from the first CD issue.
They are: Red (6:17) and Cat Food (2:46)

Formazione

KING CRIMSON – Le origini

Una prima “prova” di band la si può intravedere sotto il nome di “Giles, Giles & Fripp”: Robert Fripp, chitarra e mellotron, i fratelli Mike e Peter Giles, rispettivamente batteria e basso elettrico.
Il successo del primo e unico disco pubblicato non è esaltante. Fripp
non demorde, e dà origine a un quintetto denominato King Crimson: si
allontana Peter Giles, arriva Ian McDonald che suona fiati (non solo sassofono e flauto traverso, ma anche clarinetto e fagotto) e tastiere, al quale presto si aggiungono Greg Lake (in sostituzione di Peter Giles), basso elettrico, chitarra acustica e voce e Peter Sinfield ai testi e tecnico da palco.

La formazione, dopo un buon periodo di estenuanti prove nel magazzino di un pub, esordisce partecipando al famoso concerto dei Rolling Stones in onore di Brian Jones, il 5 luglio del 1969 a Hyde Park, Londra.
Le sonorità proposte e i testi di Sinfield creano subito molto clamore.
La critica classificherà subito il gruppo come l’ennesimo della
corrente “progressive”, ma, vedremo, i King Crimson avranno pochissimi
punti in comune con nomi quali ELP, Genesis o Yes, a parte il Mellotron
o i rimandi nei testi a certe simbologie esoteriche e fiabesche. Già
dal primo LP, “In the Court of the Crimson King“, realizzato nell’ottobre 1969, si percepisce che il Re Cremisi è un entità ben diversa dalle allora mode “romantiche”. Pete Townshend
degli Who avrà modo di dichiararlo “un disco incredibile”. Sicuramente
è un esordio di quelli che lasciano il segno, e tutt’oggi, dopo quasi
40 anni, mantiene intatte tutte le sue peculiarità e innovazioni. Lo
squarcio di “21st Century Schizoid Man”, con la voce distorta di Lake,
e i vari solos di Fripp e McDonald, la geniale poesia di “I talk to the
wind”, il lirismo di “Epitaph”: siamo già dinanzi ad un gruppo
estremamente maturo, non assimilato ad alcun stilema del momento,
capace di creare qualsiasi sorta di emozione musicale con una capacità
tecnica ed una personalità, per quei tempi, assolutamente di spicco. Il
gruppo è fin da subito, comunque, un’emanazione della complessa e
originale personalità musicale di Fripp, geniale chitarrista (mancino,
che però suona da destro…), a suo modo re-interprete di Jimi Hendrix
e di Bela Bartok contemporaneamente, capace di coniugare le
lancinazioni metal con i “modi” jazz… Lo stesso Fripp si circonderà
di volta in volta di musicisti in grado di condividere il suo progetto
musicale, ma anche di contribuire con idee proprie, e della geniale
creatività poetica di Peter Sinfield;
nel corso dei primi quattro LP ci saranno continui mutamenti di
formazione, ma sempre con Fripp e Sinfield a fungere da punti di
riferimento.

La partenza di Greg Lake nel 1970, allettato dalle proposte e dalle maggiore prospettive di successo con Emerson e Palmer, scombussola immediatamente la band. Ne risente il secondo LP, “In the Wake of Poseidon” (1970)
che propone agli ascoltatori materiali già registrati con la voce di
Greg Lake sul lato A (proseguendo lo stile del primo LP), ma che nella
seconda facciata vede Fripp lanciarsi in sperimentazioni con tastiere
elettroniche che potrebbero essere anche legate ai contatti che andava
allacciando con Brian Eno (col quale di lì a poco avrebbe inciso due album fondamentali, No Pussyfooting ed Evening Star). Si aggiunga la presenza del pianista jazz Keith Tippett, e si capirà che il gruppo era entrato in una fase di rapida metamorfosi.

Trasformazione

Entrambi gli album successivi, Lizard (1970) e Islands (1971)
sono da considerare veri e propri laboratori musicali nei quali Fripp e
Sinfield sperimentano soluzioni diverse, e rimpiazzano McDonald e
Giles, anche loro in fuga dal gruppo, con un’eterogenea combinazione di
talenti (tra cui molti jazzisti del giro del “Canterbury Sound”, e –
nella seconda facciata di Lizard – il cantante degli Yes, Jon Anderson). Non bisogna dimenticare che in quegli stessi anni Robert Fripp, oltre a realizzare due album con Brian Eno, appariva sia nei dischi solisti dello stesso Eno (indimenticabile il suo assolo su “Baby’s On Fire”, nell’eclettico LP Here Come the Warm Jets) che in album dei Van Der Graaf Generator.
Era un momento di collaborazioni, scambi, intrecci attraverso i quali
Fripp, sempre bisognoso di confrontarsi in una dimensione collettiva,
cercava di meglio definire le sue idee musicali.

Islands vede l’arrivo del cantante Boz Burrell (cui Fripp insegna frettolosamente a suonare il basso) e del batterista Ian Wallace, che si aggiungono al sassofonista/flautista Mel Collins (nell’orbita dei KC – in sostituzione di McDonald – già da In the Wake of Poseidon),
e con questa formazione non perfettamente amalgamata la band parte per
una tournée americana. Per anni si è creduto che il livello dei
concerti, a giudicare dal grossolano e sconnesso album live ufficiale Earthbound,
non fosse molto esaltante; ma la pubblicazione di numerosi bootleg ha
dimostrato che la band era comunque capace di momenti musicali
estremamente intensi e affascinanti anche sul palco, dove non
soccorrevano le “magie” dello studio di registrazione.

Nel settembre 2006 e nel febbraio 2007, a pochi mesi l’uno dall’altro, sono scomparsi Burrell e Wallace.

Morte e resurrezione: musica da camera elettrica

Al ritorno dalla tournée Fripp però scioglie il gruppo.
Evidentemente non era del tutto soddisfatto dei risultati ottenuti:
soprattutto mal sopportava lo stress e l’alienazione dei tour, dover
suonare ogni sera in una città diversa e dare ogni sera il massimo.
Segue un anno di silenzio (il 1972), ma nel 1973 c’è, oltre alla prima grande collaborazione con Eno, No Pussyfooting, album che anticipa la successiva ambient music, il ritorno del Re Cremisi, che stavolta si presenta senza Peter Sinfield, e con una formazione del tutto inedita: il violinista di formazione classica David Cross, ripescato da un improbabile giro “country”, il batterista ex-Yes Bill Bruford (che diverrà uno dei fedelissimi di Fripp), il bassista/cantante John Wetton e Jamie Muir, percussionista di formazione del tutto eclettica.

La band, dopo una tournée trionfale, registrerà il primo disco del nuovo corso dei KC (che alcuni definiscono King Crimson II), Larks’ Tongues in Aspic (1973),
incidendo brani al limite della pura improvvisazione. Alcuni fan dei
King Crimson prima maniera resteranno delusi: la musica della band si è
trasformata in un jazz rock
sofisticato, complesso, eclettico, che alterna momenti di trasognata
contemplazione a violente eruzioni strumentali. La band si è ormai
distaccata da eventuali sonorità progressive (almeno nel senso più
convenziale del termine): Fripp dichiarò che “Lark’s…” era un
tentativo di suonare i quartetti d’archi di Bartok come li avrebbe
suonati Hendrix. I nuovi volti della band apportano sicuramente
sonorità differenti dal passato: il Mellotron suonato da Fripp e Cross
appare, questa volta in maniera molto discreta. Bruford scombina
pattern su pattern, amplia il proprio set di batteria con percussioni
inusitate, ed anticipa in un certo modo i clangori e le “africanità”
che troveremo in “Discipline”. John Wetton è finalmente una voce
giusta, potente e amara per i nuovi King Crimson, mentre Jamie Muir
apporta un contributo percussivo eccentrico e schizoide. Eppure la
continuità c’è: ballad come “Exiles” proseguono il discorso di
“Epitaph” e “In the Wake of Poseidon”, mentre la suite “Larks’ Tongues
in Aspic” è l’erede di “21st Century Schizoid Man”.

Sembra un ottimo periodo di forma per il Re Cremisi, anche se
qualche crepa continua ancora a presentarsi: è quasi immediato
l’abbandono da parte del geniale Jamie Muir, che godeva la stima incondizionata di Fripp, e che non gradiva molto lo stress dei tour.

Il successivo disco, Starless and Bible Black (1974)
(che vuol dire in parole povere “buio pesto”) è frutto di un vero e
proprio esperimento: realizzare un disco da studio partendo da
materiali registrati dal vivo (nel grande concerto tenuto ad Amsterdam e poi pubblicato per intero su CD col titolo The Night Watch, allusione alla tela di Rembrandt La ronda di notte
evocata in una delle canzoni dell’LP e non a caso conservata proprio
nella città olandese), ma con una qualità che rivaleggi con le
incisioni da studio. Alcuni brani di questo disco sono nient’altro che
improvvisazioni dal vivo su cui sono state sovrincise piccole parti
strumentali in studio (così è per il lungo strumentale che dà il titolo
al LP, vera e propria musica da camera elettrica). Il breve brano
“Trio” è nient’altro che un’improvvisazione live dal concerto di
Amsterdam. “We’ll Let You Know”, tratta da uno show all’Apollo di Glasgow
è anch’essa totalmente improvvisata. Il pezzo che chiude il LP,
“Fracture” è fondamentalmente un lungo brano per chitarra di Fripp, sul
quale gli altri tre musicisti assemblarono i rispettivi arrangiamenti
(ancora tutt’altro che definiti al momento della registrazione live)
poco tempo prima della serata di Amsterdam da cui il brano è tratto.

Prima del terzo album di questa fase esce di scena David Cross.
Robert Fripp, da sempre affascinato da studi esoterici e filosofici,
entra in un profondo stato di crisi personale. Lo show business, e
tutto i meccanismi ad esso connessi lo hanno stancato. Rimangono
comunque la voglia e la forza per una “chiamata alle armi” finale:
rientra Ian McDonald,
il sassofonista delle origini, David Cross torna col suo violino, Mel
Collins, e un gruppo di jazzisti per dare vita al canto del cigno della
band, Red (1974).
Sembrerebbe l’inizio di un nuovo percorso, si prospetta l’ipotesi di
partire in tour; ma Fripp, in profonda crisi esistenziale e sull’orlo
di un esaurimento nervoso, scioglie il gruppo e si ritira a vita
privata, stanco dell’ambiente del rock e dell’industria discografica,
nonché dell’incomprensione di molti critici musicali (giustamente
beffeggiati dal musicista nell’opuscolo accluso alla raccolta A Young Person’s Guide to King Crimson del 1976).

Nel 1975, a gruppo già disciolto, la casa discografica pubblica l’album dal vivo USA
tratto da due concerti registrati in America nel luglio del ’74
rispettivamente ad Asbury Park, New Jersey e a Providence, Rhode
Island. Le parti di violino di David Cross furono però sostituite da
sovraincisioni in studio ad opera del violinista Eddie Jobson.

La crisi del Re Cremisi

Nei sette anni che vanno dal 1974 al 1981
sembra che la vicenda dei King Crimson sia del tutto conclusa. Fripp fa
capire in interviste e articoli che di riformare una band non ne vuole
sapere, che il rock
per lui è finito, che di salire su un palco a esibirsi non ne ha alcuna
voglia. I fan che lo avevano seguito anche nella seconda avventura non
possono far altro che collezionare le sue apparizioni fantasmatiche in
coppia con Brian Eno (nell’album Evening Star, 1975), nei primi album solo di Peter Gabriel, in dischi di nuove band new wave come i Blondie, sui dischi della metamorfosi new wave di David Bowie (“Heroes” e Scary Monsters), e in tante altre incisioni.

Nel 1979 esce un album solo, Exposure,
che mostra un Fripp trasformato, in giacca, cravatta e senza barba. Il
disco è quanto mai eterogeneo, e in esso compaiono tanti vecchi e nuovi
amici (da Peter Hammill a Peter Gabriel, alle sorelle Roche). In realtà si tratta dei residui di un progetto di album con il cantante americano Daryl Hall (che compare in un paio di canzoni), che però era naufragato causa veto della casa discografica di Hall.

Ma il disco fa intuire a molti che Fripp non è ancora stanco di
lavorare insieme ad altri musicisti. E fa presagire una nuova avventura
di gruppo.

Il Ritorno del Re Cremisi

Nel 1981 il colpo di scena: tornano i King Crimson, con un nuovo album dal titolo Discipline.

Per molti fan è uno shock. La musica su quei solchi (siamo negli
ultimi anni dell’era del vinile) suona aliena, sconosciuta, del tutto
diversa da quella cui li avevano abituati i King Crimson I e II. E qui
si capisce fin dove arriva la rivoluzione di Fripp: abolire del tutto
l’idea beatlesiana del gruppo o complesso o band come gruppetto d’amici
“uno per tutti, tutti per uno”, e sostituirla con un laboratorio
musicale dove non ci sia una personalità dominante (quali potevano
essere John Lennon e Paul McCartney nei Beatles),
ma quattro o più musicisti che fanno musica insieme, contribuendo
paritariamente, incontrandosi quando hanno qualcosa da dire, e poi
facendo attività solistica quando li interessa altro. Indicativo di
questa mentalità responsabile è il nome che all’inizio Fripp e compagni
avevano pensato di usare per la nuova band: “Discipline”. Alla fine
però i quattro optano per il più glorioso nome originario.

La nuova formazione è di super-professionisti: il veterano Bruford alla batteria, il virtuoso Tony Levin al basso, e l’enfant prodige Adrian Belew alla chitarra (scoperto pochi anni prima da David Bowie per una tournee, e portato alla ribalta dall’album Remain in Light dei Talking Heads).
Soprattutto la presenza di Belew è rivelatrice: per la prima volta nei
King Crimson c’è una seconda chitarra, che in molti casi primeggia. In
realtà Fripp è del tutto privo di smanie di protagonismo, e affiancarsi
un altro virtuoso delle sei corde è (oltre a una manifestazione di
stima per Belew) un modo per dire ai fan che King Crimson III non è la Robert Fripp Rock Band.

Questa versione dei King Crimson ha qualche somiglianza con certa musica new wave, probabilmente come risultato dei rapporti di Belew con i Talking Heads,
spesso considerati, a torto o a ragione, progenitori di quel genere
musicale. Nelle intenzioni di Fripp, preoccupato di armonizzare per la
prima volta due chitarre nel gruppo, quello che si doveva ottenere era
un “rock gamelan“, con un intreccio ritmico delle due chitarre che lui trovava simile a quello ottenuto dai gruppi gamelan indonesiani.

A questo disco ne seguono altri due: Beat (1982, dedicato ai poeti e scrittori della beat generation) e Three of A Perfect Pair (1984),
dopodiché Fripp scioglie nuovamente la band, non tanto perché
insoddisfatto della musica che sta suonando, quanto della propria
situazione contrattuale con la EG Records, con la quale entra in un contenzioso dal quale uscirà solo nel 1997 fondando una sua casa discografica, la Discipline Global Mobile,
un’etichetta che ha curato non solo la musica dei King Crimson, ma
anche vari progetti personali di Robert Fripp e di altri artisti.

King Crimson IV: da quartetto a sestetto

Nei primi anni 1990 Fripp invita il cantante David Sylvian (ex-Japan)
a partecipare a una nuova formazione dei KC. Sylvian rifiuta, ma i due
realizzano insieme un LP e partono in un tour cui partecipa anche il
batterista Pat Mastelotto (già con i Mr Mister), che viene preferito addirittura al primo batterista della band, Michael Giles, desideroso di tornare a lavorare con Fripp, e a Jerry Marotta che aveva suonato nel disco in studio.

Mentre è ancora impegnato nel tour con Sylvian, Fripp comincia a
organizzare la riunione dei King Crimson, inattivi da otto anni. Tony Levin e Adrian Belew lo convincono a contattare anche Bill Bruford, nonostante Fripp e Trey Gunn,
allievo di Fripp e virtuoso dello stick insistano per Mastelotto. Di
qui nasce una delle più originali formazioni della band, quella come
sestetto, o meglio, per metterla nelle parole di Fripp, “doppio trio”
(due chitarre, due bassi, due batterie).

I King Crimson (IV) si riformano come sestetto nel 1994, dopo dieci anni di assenza dalle scene musicali. La formazione “double trio” incide alcuni album: VROOOM (1994), THRAK (1995) e THRaKaTTaK (1996). Il nuovo sound dei King Crimson è qualcosa che sta tra l’intreccio di chitarre dell’era Discipline e il gusto quasi-heavy metal di Red. Il sestetto però, anche a causa della difficoltà di conciliare gli impegni dei sei componenti, si scioglie dopo il terzo LP.

Oggi

La storia della band è tutt’altro che conclusa. Dopo alcuni progetti temporanei denominati ProjeKcts,
Bruford e Levin lasciano la band, lasciando la formazione
Belew-Fripp-Gunn-Mastelotto (che si potrebbe definire King Crimson V).
Il loro primo lavoro in studio è l’album The ConstruKction of Light (2000), accompagnato da un altro album di sole improvvisazioni in studio: Heaven and Earth, realizzato sotto il nome ProjeKct X.

Nel 2001,
la DGM, la casa discografica di Fripp chiude i battenti come etichetta
generale e si concentra sui soli King Crimson. Un lungo tour porta in
concerto la musica di The ConstruKction of Light, seguito da un altro tour mirato a scrivere, provare e sviluppare nuovi brani per l’album successivo: quest’ultimo esce nel 2003, col titolo The Power to Believe.

Nel novembre del 2003, Trey Gunn annuncia il suo abbandono della band. Robert Fripp non si perde d’animo: annuncia, insieme a Tony Levin,
che quest’ultimo tornerà a suonare con i King Crimson. Ma al momento i
KC (VI) non stanno lavorando insieme; cominceranno a registrare un
nuovo album nel 2008 con una formazione a quintetto: Adrian Belew, Robert Fripp, Tony Levin, Pat Mastelotto e Gavin Harrison dei Porcupine Tree[1].

È evidente comunque che la serie interminabile di trasformazioni
della band significa ormai che i King Crimson non sono un “complesso”
nel senso tradizionale del termine, bensì una costellazione di
musicisti che di tanto in tanto si riuniscono per suonare, comporre, ed
eseguire la loro musica dal vivo. Al centro di questa costellazione,
sta sempre il Re Cremisi in persona, Robert Fripp.

Influenze

La musica dei King Crimson I era ovviamente radicata in qualche misura nel rock degli anni 1960, specialmente in quello acido e psichedelico. Oltre ai Moody Blues,
gli artisti che possono aver influenzato la prima formazione sono
quelli le cui canzoni erano suonate dalla band in concerto: per esempio
la canzone di Donovan Leitch “Get Thy Bearings”, ma anche il classico dei Beatles
“Lucy in the Sky with Diamonds”. Altre tracce dei Beatles si ritrovano
non solo nel primo periodo dei KC: suona alquanto crimsoniana (seconda
fase) la coda strumentale della canzone “I Want You (She’s So Heavy)”
nell’LP beatlesiano Abbey Road. Comunque, mentre gruppi come gli stessi Beatles e i Rolling Stones suonavano forme più sofisticate di rock degli Stati Uniti,
i KC hanno tentato di “europeizzare” quella che in precedenza era stata
una forma di musica essenzialmente americana. In grandi linee, essi
hanno eliminato il fondamento blues della musica rock
(e certo lo stile chitarristico di Robert Fripp è tra i più distanti
dalla tecnica blues) e l’hanno sostituito con una base derivata dalla
moderna tradizione sinfonica europea. Le influenze americane sono più
che altro derivate dal jazz, e comunque hanno un peso fino alla seconda
formazione. Sebbene le influenze siano molteplici, due nomi sembrano
aver avuto una forte influenza sulla musica dei King Crimson, fattasi
più marcata nel corso degli anni.

Gustav Holst
è il nome più ovvio, almeno a livello superficiale. La prima formazione
dei KC suonava regolarmente dal vivo una versione elettrica della
sezione intitolata Marte della suite di Holst The Planets (I pianeti). L’influenza di Béla Bartók
è più sottile, ma il compositore ungherese è stato indicato più volte
da Fripp e da altri componenti della band come un punto di riferimento,
e sembra presente in modo più pervasivo nel complesso del repertorio
musicale dei KC (decisamente influenzato da Bartok è per esempio il
brano Larks’ Tongues in Aspic).

Come risultato di quest’influenza, il primo album della band viene frequentemente visto come punto d’inizio del rock sinfonico o progressive rock.

 

 

King Crimson

Nel regno del progressive

di Michele Chiusi

La
lunga saga del “Re Cremisi” è il frutto del genio cervellotico di
Robert Fripp, chitarrista geometrico e “dittatore illuminato” della
band britannica che ha fatto la storia del progressive e del rock

PROLOGO

“Ho cominciato a suonare la chitarra a undici anni, nel 1957, pochi
giorni prima di Natale. Non avevo per niente orecchio musicale, non
avevo neanche il minimo senso del ritmo. Non sarebbe stato possibile
immaginare qualcuno musicalmente meno dotato di me. Quando sei così a
secco di doti musicali, devi per forza cominciare a riflettere e a
farti domande sulla natura del suono. Che cos’è che non ti permette di
avvertire la differenza tra una nota e l’altra? Quali sono le parti
dell’organismo che reagiscono alle diverse componenti della musica?
Dove sono le barriere e i blocchi? Cosa puoi fare per eliminarli?”.
Strano personaggio Robert Fripp. Strano e unico personaggio in un
mondo del rock che, almeno all’epoca della sua formazione musicale,
derivava da un humus culturale e di costume legato indissolubilmente a
un certo ribellismo da teddy boys, poi sesso e groupies, droga a
volontà, macchine veloci, Harley Davidson e viaggi infernali, Jack
Kerouac e le porte della percezione, trasgressione e omologazione. La
nascita della gioventù come entità autonoma nel pensiero, nel costume,
nel vestire, nei rituali, nelle (ir-)responsabilità ha avuto una
colonna sonora bellissima, travolgente e commovente. Ma le colonne
sonore, si sa, a volte slegate dalle immagini perdono forza e vigore,
le decontestualizzi e ti ritrovi con un pugno di mosche in mano. E poi
tutti invecchiano e dopo un po’ l’ entusiasmo non basta più. Robert
Fripp è uno di quei personaggi che hanno salvato il rock da sé stesso,
ma per farlo hanno dovuto accompagnarlo verso la senescenza e,
lentamente, impercettibilmente, ucciderlo. Perché Robert Fripp, sia ben
chiaro, è pienamente un musicista rock, ne possiede l’approccio, la
ritmica, l’impatto, la commercialità. Ma ne rifiuta la prospettiva. “La
deliberata dichiarazione da parte mia, nel 1969, che era possibile al
rock di richiamarsi alla testa oltre che ai piedi causò una sorta
d’esplosione passionale e fu considerata eretica”. Ma cosa vuole questo
borioso provinciale borghese? Perché complicare una cosa in fondo così
semplice come il rock? La risposta è forse lapalissiana: perché Fripp
(ma, intendiamoci, non è certo l’ unico) è un musicista che usa le
forme del rock come linguaggio, come tramite, non un ragazzo che fa il
musicista per esprimersi nel linguaggio della propria tribù
generazionale, culturale ed emotiva e che quindi diventa musicista
rock.
Il cambio di prospettiva è copernicano, è il cambio di
prospettiva del rock da espressione ad arte, che in quanto tale parla
ai posteri come ai contemporanei e necessita di disciplina (parola
chiave per la musica di Fripp) e struttura.

ATTO PRIMO

Dopo esperienze musicali trascurabili, un trasferimento a Londra
nel 1967 e un disco altrettanto trascurabile con i fratelli Giles
(“Giles, Giles and Fripp, The cheerful insanity of..”.), nel 1969 forma
i King Crimson con appunto i fratelli Michael e Peter Giles e il
fiatista Ian Mc Donald. Con la sostituzione successiva di Peter Giles
con Greg Lake, poi negli Emerson Lake and Palmer, il line up per il disco di esordio è completo.

Il gruppo ha una frenetica attività live con materiale originale
che confluirà nell’esordio e in parte nel successivo e il 10 ottobre
del 1969 esce In The Court Of The Crimson King,
in un certo senso atto costitutivo del genere che successivamente sarà
noto come progressive. Come ben testimonierà successivamente il
cofanetto postumo Epitaph, il disco rispetto alla attività live è più ordinato e razionale, meno dirompente.

In The Court Of The Crimson King è disco bello ed epocale.
Forse più epocale che bello. Cinque brani famosissimi tra gli
appassionati del genere e anche oltre. Una partenza fulminante con il
delirio di “21st Century Schizoid Man”, con la voce filtrata di Lake
che declama l’apocalittico testo di Sinfield su un riff chitarristico,
poi un lungo break strumentale con la fuga in progressione di chitarra
e sax e ripresa successiva del tema portante. Brano aspro e frenetico,
costeggiante l’improvvisazione senza mai toccarla. Poi, un clamoroso
cambio di atmosfera con “I Talk To The Wind”, di Ian McDonald, melodia
dolcissima, di sapore antico, rinascimentale, impreziosita da due
bellissimi stacchi in cui il flauto svolge un toccante tema melodico.
Poi l’inquietante epica di “Epitaph” e della title track, con il
mellotron che stacca in continuazione disancorando i brani dalla loro
fisicità, e in mezzo “Moonchild”, brano tutto giocato su un tenue
minimalismo strumentale, con un’iniziale delicata melodia che si
sgretola presto in una lunga improvvisazione tangente al silenzio.
Tutti i brani nascono da idee iniziali brillantissime che sono
enormemente sovraccaricate di impatto strumentale come di tensione
drammatica. Già i Moody Blues usavano il mellotron, già i Nice
giocavano con ambizioni classiche, già i Procul Harum, tra gli altri,
dilatavano i brani; Ma di fronte a In The Court Of The Crimson King
tutto ciò sbiadisce come timido prologo, è il passaggio, preparato,
studiato e consapevole del Rubicone verso un nuovo genere, e lo è non
tanto e non solo per quello che vi è suonato o per come è stato
suonato, ma anche per quello che codifica, per il pensiero estetico,
culturale e per le ambizioni che manifesta.
Ambizioni che non sono, a mio parere, risolvibili nella
commistione del rock con la musica classica, come certa critica di
grana grossa ha affermato per decenni, ma nel creare un approccio che è
mentale e ideale prima che compositivo che esca da vecchie traiettorie
del rock come forma musicale viscerale, emotiva, generazionale,
politica, funzionale allo svolgersi di stanchi rituali di stupefacente
conformismo artistico; traiettorie del rock come musica di
ghettizzazione artistica, urlata ma in realtà trascurabile e
ininfluente.
In The Court Of The Crimson King è l’inizio del tentativo
rivoluzionario di fare del rock una forma d’arte, in cui il messaggio
fosse insito nella ricerca estetica, in cui non esistesse un contesto o
uno sfondo ma solo pura forma, disciplina e cristallizzazione della
bellezza come categoria primigenia. In tal senso, o per lo meno anche
in tal senso, va ricercato il rifrangersi del progressive nella musica
classica. L’esordio dei King Crimson fu l’esordio di un fallimento di
successo, perché retrospettivamente possiamo forse dire che il
tentativo alla lunga fallì per mancanza generale di coraggio e di
visione, ma ciò che nascerà dalle macerie fumanti non sarà più rock ma
o la sua caricatura o la sua immagine spettrale.
Disco epocale, tra grandeur, enfasi e l’inquietudine del
profondo, disco di saldissima struttura melodica, potente, delicato,
iper-razionale ma anche di impeto e tempesta, In The Court Of The Crimson King
assume pienamente l’impatto e la ciclicità spaziale del rock, e qui sta
il suo limite più evidente, rifiutandone i perimetri dello spettro
espressivo.

L’anno successivo esce In The Wake Of Poseidon, se ne va Mc
Donald (un talento,una meteora e un mistero del progressive), entrano
il cantante Gordon Haskell, il fiatista Mel Collins e il grande
pianista jazz Keith Tippett, che avrà un importante e misconosciuto
ruolo nell’evoluzione successiva del gruppo. La formazione è instabile
e inquieta. La prima facciata ripercorre pedissequamente la prima
facciata dell’esordio, con un primo brano tirato con riff chitarristico
e crescendo centrale, seguito da una ballata, anche qui splendida
(“Cadence And Cascade”), e da uno psicodramma per mellotron. Le
similitudini finiscono qui. La seconda facciata presenta
sostanzialmente due brani, una intelligentissima finta jam jazzata
sulla base di un motivetto cabarettistico (“Cat Food”) e un inquietante
e possente crescendo marziale, costruito attorno al nucleo di “Mars”
del compositore Holst, con il mellotron che apre virtualmente
all’infinito. Poi, se l’esordio era un progetto corale, il seguito è un
disco dominato dalla figura di Fripp. “Un grande disco e un disco
deludente”, è stato detto, non senza ragione, perché se è eccellente la
musica ivi contenuta, non si rilevano la stessa forza visionaria e la
stessa suggestione dell’esordio.
L’instabilità del gruppo si accentua, se ne vanno i fratelli
Giles e definitivamente Lake, Fripp chiama alla corte dei jazzisti
della frenetica scena inglese (oltre a Tippet, Charig, Miller e Evans).
Da questa precarietà nasceranno i due capolavori assoluti dei King
Crimson e del progressive tutto.

Il primo si chiama Lizard ed esce sempre nel 1970. La
discontinuità rispetto ai due dischi precedenti appare netta e
spiazzante, l’influenza della scena art-jazz inglese appare palese nel
mood dei pezzi, se non proprio nelle composizioni medesime; se negli
esordi si operava sulla sovrastrutturazione di nuclei melodici
primigeni adesso ci si focalizza, pur essendo Lizard
disseminato di intuizione melodiche geniali, sulla cura di
arrangiamenti spiazzanti, sovraccarichi di incisi, accordi, rimandi,
contrappunti, con vasta aree apparentemente free-form di jazz
progressivo. Se prima prevaleva l’epica e il lirismo, adesso prevalgono
melodie sghembe, taglienti, ironiche, che galleggiano su una miriade di
geniali intuizioni strumentali. Il tutto dona al disco qualcosa di
inquietante, di estraniante, di instabile. La prima parte del disco è
in tal senso paradigmatica, con Fripp all’acustica che nell’iniziale
“Cirkus” divaga distaccato in controcanto alla linea vocale stralunata
di Haskell, poi soli di sax e mellotron in un brano di costruzione
magistrale. Poi l’indolente “Indoor Games”, dalle continue
punteggiature jazz, seguita dalla sarcastica ” Happy Family”, con voce
filtrata con gli strumenti che si inseguono e si intersecano in una jam
lunare. Chiude la prima facciata la dolcissima “Lady Of The Dancing
Water”, toccante madrigale per flauto, acustica e bel testo di
Sinfield, forse il brano più sentimentale scritto da Fripp.
La seconda contiene la (falsa) suite “Lizard”, con una prima
parte “Prince Rupert Awake”, bella e aperta melodia cantata da un
ancora non celebre Jon Anderson
che si sfrangia ben presto in “Bolero-Peackock’s Tale”, che incanta con
una struggente melodia all’oboe da cui sviluppa una complessa partitura
per fiati, poi la terza parte, “The Battle Of Glass Tears”, con Haskell
che riappare in una gelida e aliena cantilena, quindi, bordate di
mellotron a decomprimere un parte rabbiosamente “free-form”, a chiudere
i tre minuti futuristi di “Big Top”, una nota di basso incombente con
accordi spettrali e sospesi di Fripp.
Lizard è un disco unico, complesso, raffinatissimo, di
grandissimo spessore compositivo ed emozionale, un disco che si esprime
nei particolari, ascolto dopo ascolto, e per questo a suo modo fragile
e in qualche modo alieno anche allo stesso mainstream del progressive.

Dopo Lizard, un’opera che potrebbe irradiare un’ intera
carriera, i King Crimson, sempre più instabili e precari, compiono
un’impresa incredibile: fanno un disco ancora più bello. Si chiama Islands ed esce nel 1971. Boz sostituisce Haskell alla voce, il line up di ospiti jazzisti rimane immutato.

Islands condivide la raffinatezza e la ricercatezza del
predecessore, ma è al contempo meno algido e lezioso, con momenti di
grandissimo pathos musicale difficilmente eguagliabile e che i King
Crimson (e Fripp) non raggiungeranno mai più.
“Formentera Lady” inizia come una malinconica e oscura ballata
con Keith Tippet al piano e Mel Collins al flauto che si inseguono
meditabondi, poi una lunga chiusa di incredibile suggestione con un
giro di basso che àncora al suolo un coacervo di voci spettrali (è
presente anche una soprano), con un sax triste e nervoso che vaga
inquieto. Un brano in qualche modo spaziale, pur essendo completamente
acustico, dal clima irreale, vicino in qualche modo a forme di musica
contemporanea. Poi un lungo e vibrante assolo in progressione di Fripp
(“The Sailor Tale”) e “The Letter’s”, tristissima e straniante. La
seconda parte inizia con ” Ladies Of The Road”, una personalissima
interpretazione di Fripp di un come fare un pezzo “alla Beatles
eppure renderlo inconfondibilmente dei King Crimson; chiudono, con un
brusco cambio di clima, “Song Of The Gulls”, un bellissimo pezzo
classico per archi e oboe, e la lunga “Island”, a mio parere il brano
più bello mai composto da Fripp, peraltro su un bellissimo testo di
Sinfield, un brano malinconico lirico e toccante con degli inserti
pianistici raffinatissimi e indimenticabili di Tippett e con un finale
liberatorio, con il mellotron che accompagna un solo al sax da brivido.

Nel complesso Lizard e Islands sono opere uniche e
ineguagliate nella storia del rock. Opinione personalissima, s’intende.
Si, perché di questo ancora si tratta, in fondo, perché nella loro
vertigine e nella loro alterità formale, rimangono sullo sfondo le
vestigia del rock, spolpate, disincarnate, sublimate, ma presenti.
Dopo Island, si chiude la prima fase dei King Crimson, con la coda del live Earthbound, trascurabile, quasi volutamente mal prodotto e registrato malissimo.

Il gruppo si scioglie e per un po’ i King Crimson sembrano un gruppo sepolto.

ATTO SECONDO

Nel 1973 esce Lark’s Tongue In Aspic. Fripp ha
praticamente formato un altro gruppo, con altri musicisti, con un’altra
filosofia e con un approccio distantissimo dagli esordi. Solo la sua
presenza giustifica la sopravvivenza del nome. Il Re ha chiamato a sé
Bill Bruford alla batteria, transfuga dagli Yes, John Wetton al basso,
ex Family, il violinista David Cross, che sostituisce il sax alla
seconda voce solista, e Jaime Muir, che se andrà dopo poco, alle
percussioni.
Questo line up caratterizzerà tutta la seconda fase del gruppo
fino al 1975. Bruford e Wetton, che funge anche da vocalist,
costituiscono una sezione ritmica potente, granitica e irrequieta, di
grande impatto sonoro, ma al contempo creativa e moderna, che ben si
compenetra con il nervoso ed elegiaco violino di Cross e con la
chitarra di Fripp, che assume un approccio diverso allo strumento,
dimenticando quasi del tutto toni acustici e votandosi a suoni aspri,
taglienti, secchi, geometrici, a scale vorticose. Rimane Muir, usato
come elemento terroristico di disordine percussivo, che se ne andrà
dopo Lark’s Tongue In Aspic e di cui non esistono, almeno a mia conoscenza, testimonianze live.

Se avevamo lasciato i King Crimson come gruppo di surreale antitesi del rock, il gruppo che reincontriamo in Lark’s Tongue In Aspic
del rock riacquista il linguaggio e la spazialità, interpretandolo però
in maniera libera e originale, in un appassionante dialogo tra
disordine e schema, tra caos free-form e libertà jazz rock da una parte
e riff squadrati dall’altra.
Questa dicotomia è, in realtà, un’ analisi soprattutto postuma.
Mi spiego meglio: i King Crimson della seconda fase sono essenzialmente
un formazione live e che in tale dimensione trova pieno compimento
nell’incontro-scontro tra un’anima improvvisativa e un’anima di forte
rigidità formale, tra astrazione e durezza, tra impatto e lirismo. Il
primo disco di tale formazione, Lark’s Tongue In Aspic,
appunto, è considerato a torto un gran disco, ma in tutti i casi può
essere considerato tale solo nell’ottica della non conoscenza delle
testimonianze, quasi tutte postume, dell’impatto live del gruppo, al
confronto del quale la prova in studio è una pallida copia senza forza.

L’impatto di Lark’s Tongue In Aspic è comunque dirompente.
Il disco comprende tre strumentali (“Lark’s Tongue In Aspic” pt 1 e 2,
posti all’inizio e alla fine, e “The Talking Drum”) e tre brani cantati
(“Book Of Saturday”,”Exiles” ed “Easy Money”).
L’ incipit con la prima parte della title track è già
programmatico dello stile del gruppo, con un inizio di delicato
rumorismo opera di Muir che si risolve in un cupo e sospeso accordo di
violino, che prelude all’entrata di Fripp il quale infila una serie di
passaggi chitarristici ora frenetici ora quasi hard con la sezione
ritmica in piena epilessia che divaga su territori jazzati; il violino
di Cross chiude poi il brano in toni più lirici, sebbene sempre oscuri.
Già dal primo brano appare abissale il distacco dal gruppo di Islands:
innanzi tutto i King Crimson sono in parte diventati una
guitar-oriented band, poi il sound complessivo è condizionato dalle
notevoli capacità tecniche dei musicisti, molto superiori alle
precedenti formazioni. Prevalgono poi toni minacciosi, oscuri, con
derive quasi hard che si sfrangiano in un eclettismo strumentale, vero
elemento centrale e “progressivo”, con continue e inaspettate
variazione ritmiche e melodiche, con la sezione ritmica che assurge a
ruolo creativo con forti richiami, almeno come impostazione di fondo,
al jazz-rock.
Ancora più lampante in tal senso la seconda parte della title
track, con Fripp che costruisce tutto il brano su semplici riff
chitarristici lanciati in progressione ed espansi via via da
innumerevoli inserti strumentali fino all’esplosione finale. In
“Talking Drum” una ipnotica base ritmica in crescendo fa da sfondo a
una linea melodica vagamente orientaleggiante tenuta da Cross e
doppiata dalla chitarra lancinante di Fripp. Più deludenti i brani
cantati, con la breve “Book Of Saturday”, che prova senza successo
lirismi in prove precedenti più centrati, “Easy Money” stupisce per la
banalità della melodia salvata solo dagli equilibrismi frippiani (molto
più coinvolgenti nella dimensione live, comunque), più riuscita la
malinconica “Exiles”, con bellissimi stacchi di Cross al violino.
Opera a mio parere un po’ sopravvalutata, Lark’s Tongue In Aspic
risulta comunque essere un passaggio importante perché stampo di un
nuovo sound foriero di ulteriori sviluppi e soprattutto tuttora
moderno. Se infatti i brani della prima fase del gruppo ascoltati oggi,
al di là dei giudizi, appaiono senz’altro, anche a un ascoltatore
distratto, appartenenti a stagione passate, non così i brani di Lark’s Tongue In Aspic,
in particolare gli strumentali, posti come sono tra la tesi di un rock
aspro e diretto e l’antitesi della sua negazione in un
intellettualismo, tipico dei Crimson in tutte le varie incarnazioni
passate e future, che ne rompe non solo gli schemi ma anche il mood e
il pubblico di riferimento. La musica del gruppo, in questa fase, parte
sicuramente dal recupero di una visceralità rock, che però viene
sottoposta a una decomposizione e a una consapevole e programmatica
ristrutturazione su basi puramente razionali.

L’anno successivo esce Starless And The Bible Black, senza
Muir. Un disco che ricalca le orme del precedente, ma con più lucidità.
La prima facciata comprende ben sei brani con due assoluti gioielli
strumentali, “We’ll Let You Know”, grande finta-improvvisazione con
basso rombante di Wetton, e la straordinaria “Trio”, 5 minuti toccanti
di delicati aforismi sonori. Poi “The Mincer”, con Fripp che delizia
con i suoi tipici stacchi alienati supportati dal mellotron; quindi la
splendida “The Night Watch”, con un assolo di Fripp che farà scuola,
l’iniziale “The Great Deceiver”, con Fripp che fa le prove generali per
scale frenetiche che sfrutterà fin troppo nel futuro, e il solito
tentativo di canzone melodica con “Lament”. Nel complesso, il gruppo
sembra toccare con più consapevolezza e raffinatezza una dimensione
astratta e indeterminata, appena accennata nel disco precedente. A
testimonianza di ciò i 9 minuti della title track che apre la seconda
facciata: una lunga e delirante jam esistenziale, iperdescrittiva,
inquietante, che fa da preludio agli 11 minuti finali di “Fracture”,
che riprendono in pieno il filo di “Lark’s Tongue In Aspic Part 1”.

Il disco successivo, Red,
esce nello stesso 1974 a gruppo sostanzialmente già sciolto. Come
caratteristica della band, l’instabilità è direttamente proporzionale
alla creatività e “Red” non fa eccezione, essendo, a mio parere, il
vero capolavoro della seconda fase dei King Crimson. Il disco è
attribuito a una formazione a tre (Fripp, Wetton, Bruford), con Cross
che appare come ospite assieme ai redivivi Mc Donald, Collins, Miller e
Charig. L’iniziale title track diverrà un classico sia perché tutt’ora
highlight da concerto sia, e soprattutto, perché lo squadrato barrage
chitarristico su cui è costruita farà da modello per tante prove
successive in anni anche molto più recenti. Le successive “Fallen
Angel”, con alcuni richiami alle passate stagioni di “In The Wake Of
Poseidon” e “One More Red Nightmare” sono di gran lunga le canzoni
migliori composte da questa formazione, melodica ed epica la prima, più
nevrotica la seconda, che sembra costruita strumentalmente per fare
emergere la grande bravura e sensibilità di Bruford. Poi, otto minuti
di improvvisazione senza centro, patrimonio dei concerti
(“Providence”), infine l’apoteosi di “Starless”: una linea melodica
indimenticabile di Fripp su fondo di mellotron si alterna alla voce
volumetrica e malinconica di Wetton su intercalari di sax; poi un
ostinato accordo minimale alla chitarra che sale all’infinito fino a
una furibonda jam che, all’apice della tensione, si libera nella
ripresa della primitiva linea melodica con il basso tuonante di Wetton
che entra nello stomaco. Dodici minuti mirabili, sicuramente tra le
massime espressioni dei King Crimson.
In generale, Red è disco relativamente più diretto e meno
eclettico e tortuoso dei precedenti, ma quello che viene perso in
complessità viene ampiamente riguadagnato da una scrittura felicissima
dei brani, con punte di entusiasmate potenza e lirismo.
Nel 1975 esce il live USA, e per qualche anno non si sentirà più
parlare dei King Crimson. Non così di Fripp, che si era già cimentato
nell’elettronica con Brian Eno
(“No Pussyfooting”) e che ne farà tesoro per esperimenti chitarristici
di elaborazione in loop (le famose frippertronics, che faranno scuola,
di “Let The Power Fall”), le collaborazioni con Peter Gabriel, David Bowie,
Brian Eno, Daryl Hall (“Sacred Songs”), uno splendido disco solista nel
1979 (“Exposure”). Fripp come ricercato chitarrista e produttore nonché
come “testa pensante” del rock, perfettamente a suo agio nella
incombente new wave
e nelle “strategie oblique” teorizzate da Eno, Fripp “nel mercato senza
essere sottoposto alle sue regole”, Fripp due occhi nel futuro e un
grande passato mai rinnegato né tradito.

ATTO TERZO

Tutto ciò esula comunque da questa piccola trattazione, e per
quanto ci riguarda troveremo i King Crimson, a sorpresa, sette anni
dopo Red, nel 1981, con Discipline. Molte cose sono
cambiate. Della vecchia line-up è sopravvissuto solo Bruford,
batterista degli anni 60 così come del 2000, a cui si affiancano, oltre
a Fripp, Tony Levin al basso e Stick, ancora lontano da essere il
ricercatissimo session-man dei giorni nostri, nonché Adrian Belew alla
seconda chitarra. Perché una cosa salta subito agli occhi e alle
orecchie, dopo i fiati e il violino, Fripp ha deciso di utilizzare una
seconda chitarra come seconda voce armonica.
Il focus di Discipline è tutto in questa primitiva scelta.
Il disco, infatti, è tutto costruito sull’interazione tra Fripp e
Belew, a volte all’unisono, a volte in dialogo, a volte in concordanza
di fase, a volte sfasato, creando una specie di ipnotico minimalismo
chitarristico. Il disco del ritorno è comunque degno del nome del
gruppo, con uno splendido lento sentimentale come “Matte Kudasai”,
grandi esercizi di stile chitarristico (“Elephant Talk”, “Frame By
Frame”), furenti digressioni (“Indiscipline”), costruzioni ingegnose su
ritmi tribali (“Thela Hun Ginjeet”), spazi spettrali (“The Sheltering
Sky”). Mancano quasi del tutto il pathos e l’epica strumentale ed
emotiva dei King Crimson precedenti, rimane una grande ricercatezza
sonora, accompagnata da un’algida disciplina costitutiva. Discipline
ci consegna un gruppo nuovo, moderno, tutt’altro che residuale ma anzi
ben spendibile in nicchie di mercato intelligente, un gruppo che ha
lasciato alle spalle gli anni 70, perfettamente a suo agio nella
disillusione e nella sintesi della parte intelligente degli anni 80,
perfettamente consono al superamento dell’ epica ed estetica rock del
decennio precedente, senza per questo rinunciare alle proprie
prerogative artistiche. Il bagaglio tecnico dei musicisti è, se
possibile, ancora più alto, e ciò permette una espressività che è si
diretta e intelleggibile, ma anche molto ricercata sia nella ritmica,
mai così centrale nell’economia del gruppo, ondeggiante tra jazz-rock e
falso tribalismo, sia nell’inedito lavorio chitarristico tra
minimalismo portante, su cui si inseriscono il rumorismo onomatopeico
di Belew (in “Elephant Talk”) e le digressioni tese e vibranti di Fripp
(“The Sheltering Sky”).

Ancora meglio farà il secondo disco di tale formazione, Beat,
con due strumentali lancinanti (“Sartori In Tangier” e soprattutto la
lunare “Requiem”, una specie di delirio in chiave jazz) che valgono da
soli il disco, un tentativo, riuscito, di singolo con tanto di
video-clip (“Heartbeat”), e la follia urbana di “Neurotica”, degna
colonna sonora di un racconto di Easton-Elliss.

Quando nel 1984 esce il terzo capitolo, Three Of A Perfect Pair,
molti gridano allo scandalo per i ritmi pop-dance di alcuni pezzi come
la title track e “Sleepless”. Le critiche appaiono, tanto più
retrospettivamente, ingenerose. Three Of A Perfect Pair è un
ottimo disco, e se di pop si tratta è pop stralunato, intelligente,
metabolizzato e filtrato da una prospettiva di disimpegno straniante.
Poi, forse, nel criticare il disco ci si dimentica che oltre ai brani
leggeri troviamo in esso l’esercizio ambientale per bassi filtrati e
chitarra esistenziale di “Nuages”, nonché le inquietanti
improvvisazioni di “No Warnings” e “Industry”, e in fondo “Lark’s
Tongue In Aspic Part 3”, in cui il titolo dice già tutto.
Three Of A Perfect Pair è disco che marca una
discontinuità rispetto ai due precedenti, lavori molto omogenei, sia
per la ricerca di melodie accattivanti sia per il recupero di un
astrattismo improvvisativo che riporta il gruppo a Starless And The Bible Black, ponendosi al contempo come il più orecchiabile e il più introverso e difficile lavoro di questa incarnazione del gruppo.

Ma una domanda aleggia sottotraccia: si tratta di progressive? “Non
lo so e non mi interessa” potrebbe essere la risposta di molti, Fripp
compreso, probabilmente. Ma noi siamo legati a certi artifici se non
altro linguistici, e riteniamo che una risposta possa e debba essere
data: Sì, indubitabilmente le ambizioni e la struttura dei dischi di
questa fase e delle successive sono inerenti al progressive.
A Three Of A Perfect Pair segue un lungo silenzio, rotto musicalmente dalla collaborazione di Fripp con David Sylvian
(“The First Day” e il successivo live “Damage”) e dai dischi prodotti
dalla scuola di chitarra dello stesso Fripp (“The League Of Crafty
Guitarist”).

ATTO QUARTO

Nel 1995 esce, a sorpresa e preceduto dall’Ep Vroom, un nuovo album: Thrak.
Il line-up del gruppo questa volta non ha subito rivoluzioni, al
quartetto Fripp-Belew-Levin-Bruford si è aggiunto Trey Gunn allo stick
e Pat Mastellotto alla batteria. Fripp denota questo line-up come
“double trio”. Il gruppo si ripresenta dopo 11 anni e Thrak
riceve critiche positive. Tali critiche sono positive forse anche in
parte per distorsione data dalla lunga attesa. La continuità rispetto
al gruppo di Discipline è evidente, con però alcune palesi
differenze. Innanzi tutto sono nettamente ridotti i dialoghi e la rete
chitarristica di Fripp e Belew, preferendosi un approccio più diretto,
meno eclettico, a tratti più duro. Poi, comincia ad apparire un uso
misurato dell’elettronica, mentre è evidente un arretramento della
sezione ritmica, che ora suona molto più ” normalizzata” e meno
creativa. Spesso, poi, si indulge in riff e digressioni aspre e
schematiche, tangenti un approccio hard-rock, quasi a recuperare una
visceralità e la ricerca di un impatto appartenente più al gruppo del
biennio 73-75 che al periodo successivo, pur evitando accuratamente un
approccio stilistico ridondante e sovraccarico di chiaroscuri, tipico
del periodo. Però, al di là di queste considerazioni, quello che non
funziona sono proprio i pezzi, con stanche riprese di Red (“Vroom”,
“Vroom Vrooom”), aggressività mascheranti pezzi certo non irresistibili
(“Sex Sleep Eat Dream”, ” Dinosaur”), inutili accenni sperimentali,
ombre del tempo che fu (“B-Boom”, “Thrak”), improbabili disco-funk
(“People”), superflui camei elettronici (“Radio” 1 e 2). Rimangono due
pezzi lenti, entrambi riusciti, “Walking On Air”, in cui Belew ripesca
certe atmosfere anni 50, e la più inquetante “One Time”, nonché le due
brevi “Inner Garden” 1 e 2, di gran lunga le cose più riuscite del
disco.
Complessivamente Thrak è l’album meno riuscito del King
Crimson, non perché manchino spunti anche belli e interessanti, ma
perché fanno capolino due categorie fino ad allora inapplicabili al
gruppo: la mediocrità e la prevedibilità. Infatti la mediocrità di
alcuni brani non può essere mistificata dalla fascinazione del nome del
gruppo, e, per la prima volta, il sound suona prevedibile per quanto al
contempo moderno.

Dopo Thrak, Fripp, che ha fondato una sua casa discografica,
la Discipline Global Mobile (DGM), in accordo con il suo sano realismo
demitizzante per il quale se esiste arte al di fuori delle regole del
mercato, certamente non esiste al di fuori del mercato tout-court, inizia a fare uscire una grande quantità di materiale, tra live postumi (da segnalare il cofanetto Epitaph con materiale del 1969), live del tour di Thrak (B- Boom), dischi di improvvisazioni live (Thrakattack),
tendenza che prosegue a tutt’oggi in una logica che risponde a ovvie
esigenze di mercato, sia di tipo economico (il denaro per Fripp
evidentemente non è lo sterco del demonio) che strategico (tenere vivo
il nome del gruppo).

In questo contesto, nel 2000 riappaiono i King Crimson con un nuovo disco, The Construction Of Light.
I Crimson ritornano un quartetto con i soliti Fripp e Belew
accompagnati da Mastellotto e Gunn. L’album è sicuramente migliore del
precedente: si recupera nettamente il fitto e minimale dialogare
chitarristico (in tal senso, è più vicino a Discipline e a Beat del
precedente), appaiono canzoni interessanti (l’ironico cyber-blues di
“Prozak Blues”, la title track), con palesi riprese di temi passati
(“Lark’s Tongue In Aspic Part 4″, ” Fractured”). Però permangono delle
perplessità. Innanzi tutto, si rimpiange Levin e soprattutto Bruford,
Mastellotto non ne ha il carisma e c’è un fastidioso sovrautilizzo
della batteria elettronica. Poi, il disco è molto costruito,
lambiccato, tesissimo, ma a tratti troppo convulso e narcisista, con
poco e nulla del feeeling che residuava anche in Thrak, come
schiacciato nel vorticoso rotear di chitarre. Poi, è certamente meno
prevedibile e mediocre del precedente, ma appare una categoria
anch’essa inedita per il gruppo: la noia. The Construction Of Light è un disco spesso noioso: a suo modo possente, deflagrante, interessante, modernissimo, ma anche noioso.

La critica in questa fase guarda il gruppo con una certa
sufficienza: considerati a torto troppo vecchi per la stampa
generalista, i King Crimson risultano troppo fuori schema per il
sottobosco progressive tradizionale. La realtà è che i King Crimson
sono in questa fase, discussa e discutibile, inerenti al progressive
come non mai, ma al contempo ne danno una direttrice personale, basata
su una rigida disciplina strutturale, e a suo modo anche influente,
basti pensare a gruppi di tutt’altra origine e di varia ispirazione
come i Tool, i Don Caballero e i Muse.

Nel 2003, dopo un’attesa di “soli” tre anni, esce The Power To Believe.
C’è una discreta attesa attorno al disco, alcuni che lo ascoltano in
anteprima parlano esplicitamente di capolavoro menzionando una deriva
metal. The Power To Believe non è un capolavoro e non è nemmeno un disco metal, ciononostante è di gran lunga il disco migliore della quarta fase del gruppo. Il line up è immutato rispetto a Construction Of Light,
ma il suono appare molto più lucido e articolato, riprendendo in parte
il furibondo minimalismo di quel disco (ma senza elevarlo più a rigida
metodologia), e in parte il tentativo di rock alienato e difforme di
Thrak, ma stavolta supportato da vera inquietudine e vera ispirazione.
Il disco si pone in un’ipotetica terza via rispetto alle tendenze del
recente passato, teso tra convincenti spirali chitarristiche ora dure
(“Level Five”), ora minimali (“Elektrik”), tra deliri suburbani (“Facts
Of Life”), strane cantabilità (“Eyes Wide Open”), progressioni possenti
(“Dangerous Curves”), astrazioni elegiache (“The Power To Believe 2
& 3”). The Power To Believe è disco sovraccarico di lancinanti toni cupi e tecnologici e sembra chiudere il filo rosso che ha unito i King Crimson da Discipline
in poi, ponendosi come opera di sintesi tra le ricercatezze
iperstrutturali degli anni 80, le frippertronics e l’approccio rigido e
aggressivo della nuova formazione. Opera di sintesi e come tale,
crediamo e speriamo, opera in un certo senso conclusiva di un periodo.
E dopo? Sarà rispettata la “regola dei tre dischi” e dopo la quarta
fase se ne aprirà una quinta del tutto nuova? E con quali musicisti?
Oppure Fripp deciderà di insistere su questo gruppo e, se sì, con quali
artifici ripresenterà i King Crimson? E sapranno raccontare ancora il
futuro, se non altro il “loro” futuro? In tutti i casi, saremo sulla
riva del fiume ad aspettare un miracolo o magari solo un buon disco.

 

Risponde il critico

King Crimson – La frontiera progressiva del rock

Questa puntata è dedicata ai King Crimson, la band inglese leader del movimento progressive.
In oltre trent’anni di storia, Robert Fripp e soci hanno rivoluzionato
la storia del rock con dischi memorabili, a partire dall’esordio di “In
The Court Of The Crimson King”. Risponde a dieci domande sulla storia
di questa band Cesare Rizzi, uno dei massimi
enciclopedisti italiani del rock, autore delle Enciclopedie Rock di
Arcana e, oggi, degli atlanti rock di Giunti, tra i quali una recente
“Guida al progressive”.

1. Qual è il contesto musicale e culturale in cui nascono i King Crimson?
Avevano avuto altre precedenti esperienze?
Non è ancora chiaro se il progressive
sia evoluzione o involuzione della psichedelia, gli storici discordano,
il pubblico pure. Sta di fatto che, negli USA come in Gran Bretagna, il
rock del 1969 viva di luce psichedelica riflessa, ed è da quei
riverberi che nascono i primi semi del progressive: non c’è più voglia
di cambiare il mondo, rimane il desiderio di cambiare il rock, di
conferirgli uno spessore artistico/culturale che prima non si
conosceva. I King Crimson sono figli di quel periodo di transizione,
cruciale per la musica e per la società, non arrivano da nessuna parte,
non hanno esperienze artistiche di rilievo (l’album realizzato nel 1968
da Fripp con i fratelli Giles è più che trascurabile), ma hanno una
carica sufficiente per proporre una musica nuova, rivoluzionaria, che
non si appoggia ai comodi appigli del pop ma che anzi propone scelte
coraggiose e controcorrente, tutt’ora insuperate.

2. A
differenza di altre band di quel periodo come Procol Harum e Moody
Blues, i Crimson decidono di non attingere dalla musica classica e di
superare anche i possibili legami del progressive con il jazz. Quali
sono, allora, le influenze principali sulla loro musica degli esordi?

La
scelta di base del progressive fu di combinare in vario modo musica e
arte (art rock non a caso è il termine più spesso usato): un rock colto
e intellettuale quindi, in contrapposizione al rock & roll di
strada. Mentre gran parte delle band progressive aveva le tastiere in
primo piano, il che significava per lo più jazz rock o rock sinfonico,
Fripp propone un uso “progressivo” della chitarra, che non si ispira a
precedenti esperienze, e che soprattutto non fa nessun tipo di
revivalismo. Quella di Fripp è una vera frontiera progressiva, senza la
diffusa pretenziosità del genere, che rivela comunque studi di
avanguardia contemporanea e jazz, e anche qualche minimo residuo di
cultura visionaria lisergica.

3. “In The Court Of The Crimson King“,
il loro primo album, è rimasto anche il più memorabile. Quali sono le
caratteristiche che rendono questo lavoro una “pietra miliare” della
storia del rock?

Essenzialmente la perfetta combinazione
tra le parti in gioco, tra la creatività di Fripp, l’espressività di
Lake, la tecnica di McDonald, la poesia di Sinfield. E la straordinaria
novità della musica: non solo un disco di rock progressivo, di chitarra
e mellotron, ma uno dei più memorabili esordi di quegli anni,
aggressivo, compatto, delicato, poetico.

4. E’ vero che
con la nascita del movimento progressive la scena britannica si
svincolo’ dalla “dittatura musicale” degli Stati Uniti, trovando
proprie originali forme d’espressione?

È vero che il progressive
fu musica esclusivamente inglese (ed europea), e che la cosa fu vista
come un tentativo di svincolarsi dalla predominanza americana. Anche il
beat, anni prima, è stata musica molto inglese, con profonde radici,
però, nella musica nera americana. La grande diffusione europea del
progressive, e la sua minima notorietà negli Stati Uniti, credo siano
più che altro dovute a problemi di predisposizione “culturale”
all’ascolto. Il pubblico americano, notoriamente di gusti facili, non
avrebbe comunque mai accettato scelte musicali troppo complesse o
pretenziose, quindi va da sé che il progressive non trovò sbocchi a
occidente, mentre li trovò, per esempio, da tutt’altra parte, verso
terre tradizionalmente non rock, nell’Est Europeo, in Giappone.
Più
che un moto indipendentistico della scena britannica, andrebbe però
sottolineato quanto il progressive ha significato per la musica non
inglese in generale: sono quelle realtà musicali “terzomondiste” che
per la prima volta trovano una loro originalità d’espressione non
anglocentrica, spesso ingenua o tutt’altro che memorabile, ma degna se
non altro di menzione. Cito il caso curioso del progressive italiano,
che trovò inaspettata attenzione in Giappone, primo vero processo di
esportazione su larga scala di una qualsiasi forma di rock tricolore.

5.
Il percorso dei King Crimson, a partire da “In the wake of Poseidon”,
si snoderà per tutti i ’70 lungo direttrici diverse e a volte
spiazzanti. Quali
ragioni spinsero Fripp a questi continui mutamenti di rotta? C’erano dissidi all’interno della band?

Come
tutti i genii anche Fripp ha vissuto momenti critici e grandi
squilibri, con riflessi più o meno pesanti sulla musica del gruppo. La
grande differenza tra i dischi del periodo l’ha fatta il grado di
sintonia di Fripp con la propria arte e con il resto del gruppo:
migliore accordo con i suoi musicisti equivaleva a grande disco, e
viceversa. Nel primo album non era forse sintonia perfetta ma era un
rapporto artistico ancora vergine, sostenuto dall’euforia del momento e
dal favore di vento. Nei successivi è però percepibile il graduale
deterioramento nei rapporti tra leader e gregari, e il conseguente
sgretolamento di quel wall of sound progressivo che Fripp andava ipotizzando.

6.
Definisci “Lark’s Tongues In Aspic” il “capolavoro della seconda
stagione dei King Crimson”. Quali sono i suoi punti di forza? E quali
sono gli esperimenti che Fripp porta avanti nel disco, a partire dai
curiosi “frippertronics”?

“Lark’s” è esempio di perfetta
sintonia tra una guida creativa e feconda e un gruppo formidabile per
tecnica (Bruford e Wetton) o spontaneità (Cross e Muir). È il disco dei
primi King Crimson nel quale Fripp si trova meglio con i suoi
musicisti, che a loro volta sono i migliori che il leader abbia avuto
fino a quel momento. I punti di forza sono gli inediti duetti tra
chitarra e violino, la voce di Wetton (paragonabile a quella di Lake
degli esordi), le progressioni strumentali che rimangono tra i più
tipici esempi del suono King Crimson.

7. Fripp sembra
sempre dibattersi tra un’anima melodico-romantica e una
sperimentatrice, piu’ vicina al free-jazz. Quale delle due, a tuo
avviso, ha poi preso il sopravvento?

Fripp è stato
romantico a ritmi sincopati, irregolari, e forse anche casuali, ma a
mio giudizio la sperimentazione e lo spiccato gusto progressivo della
sua arte hanno sempre avuto il sopravvento sulla melodia o sul
romanticismo. E lo hanno tuttora, basti ascoltare le sonorità un po’
ossessive degli ultimi dischi. I momenti melodici della storia dei King
Crimson sono forse dovuti più a fattori non sempre riconducibili a
Fripp che a una precisa scelta artistica: nel trittico discografico
degli ’80, per esempio, erano perlopiù opera di Adrian Belew.

8. In quali grandi stagioni suddivideresti la storia dei King Crimson?

Oggi
parlerei essenzialmente di tre stagioni, per comodità e affinità
stilistiche: la prima (fino al 1975), la seconda (i tre album degli
80), e l’attuale (da “Vroom” in avanti). Volendo si potrebbe
suddividere ulteriormente la prima stagione in due, perché esistono
sufficienti elementi per ricondurre a “In The Court Of The Crimson King
e “Lark’s Tongues In Aspic” l’inizio di due momenti espressivi distinti
ma in qualche modo conseguenti. Rimango dell’idea che quei due album
siano a (quasi) pari merito i vertici della prima stagione;
“Discipline” è il disco migliore della seconda; per la terza parte di
carriera sceglierei “Thrakkatak”, un disco di improvvisazioni che ben
rappresenta l’ideale evoluzione del suono progressivo originario.
Nonostante alcune opere siano superiori ad altre, la parte più recente
di carriera è però troppo dispersa e confusa per produrre cose
memorabili; immagino che il pensiero di Fripp sia rivolto più a una
“continuità concettuale” di zappiana memoria che a un percorso
discografico chiaro e rettilineo.

9. Qual è il tuo
giudizio del periodo più recente dei Crimson, dalla metà degli anni 80
ad oggi? Tra vari progetti, sottoprogetti, “frattali” e compagnia, c’è
anche qualche lavoro all’altezza dei loro dischi “storici”?

Il
recente percorso artistico dei King Crimson è la conclusione
inevitabile di un mercato discografico sempre più modesto e confuso,
dove la sopravvivenza delle bande alternative (e i Crimson lo sono
sempre stati) è legata all’autoproduzione e all’indipendenza. In tale
disdicevole situazione Fripp ha saputo tuttavia creare un microsistema
discografico esemplare, che funziona a patto di autoalimentarsi senza
sosta, di rimanere perennemente vigile e attivo per soddisfare lo
zoccolo duro degli appassionati. In altre parole Fripp mi sembra
condannato a suonare per l’eternità, a creare qualcosa di nuovo tutti i
giorni, a moltiplicare pani, pesci e musica per nutrire i suoi
discepoli. Da qui alla frenesia discografica il passo è breve. Come nel
caso dei Grateful Dead,
è un tipo di microsistema che può funzionare in maniera soddisfacente
per entrambe le parti a patto di procedere lungo percorsi estranei a
quelli consueti del rock. Per contro provoca una sorta di
iperspecializzazione che non tiene più conto degli effettivi valori
artistici del prodotto ma soltanto di quelli affettivi: in sintesi, il
“sistema” mira al sostentamento di una fascia di pubblico che acquista
tutto, indipendentemente dal valore. Nel caso specifico dei Crimson
quasi tutto quel che è uscito negli ultimi dieci anni è perlomeno
interessante, alcune cose anche splendide, ma niente è imperdibile;
vale a dire che la storia del gruppo è già stata scritta,
indipendentemente dal numero di progetti e sottoprogetti, frattali,
dischi vecchi e nuovi che Fripp è riuscito o riuscirà a realizzare.

10.
“Dittatore illuminato”, compositore “cerebrale” o “cervellotico”,
“perfezionista maniacale”. Si sono sprecate, in questi anni, le
definizioni di Robert Fripp. Puoi raccontare, in poche parole, che
personaggio è il leader dei King Crimson? E quali sono le peculiarità
del suo stile chitarristico?

Fripp ha sempre proceduto per
la sua strada con ammirevole e implacabile ostinazione, lo si può
accusare di essere dispotico, perfezionista, eccessivo, ma non di non
essere coerente con scelte artistiche che hanno ormai più di trent’anni
ma conservano ancora il fascino di un tempo. L’aver conservato una
propria indipendenza artistica, discutibile ma cristallina, pone Fripp
al di sopra delle parti, e la cosa è di per sé un merito inalienabile.
Il suo stile viene dopo, e al contrario di altri reduci, rispecchia il
rigore e l’orgoglio del personaggio, e da lì acquista spessore e
consistenza. Il fatto di non essere mai stato riconosciuto tra i grandi
della chitarra è forse dovuto al fatto che Fripp è un artista, prima
che un chitarrista, la sua forma di espressione è la musica prima della
chitarra.

 

 


 

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