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FHOTOTECA presenta MATERIALI 4 LA PUTTANA ARTIFICIALE photo magazine phototeca 41 fhoto teca bruno vidoni ‘s santa bladina

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Description

 

cod.FEA 

 

FHOTOTECA presenta 

MATERIALI n.4 LA PUTTANA ARTIFICIALE 

 

 

Quarta dispensa di Materiali: La protesi non ha da essere sempre un apparecchio, ma può essere anche una frase, può essere un gesto o un’azione, o un’insieme codificato di azioni (il linguaggio dei sordomuti); un cane (vedi guida per ciechi), può essere un trucco nel senso di maquillage; una espressione del volto, un odore o un profumo; può essere l’asciugamano che il bullo nasconde davanti nel costume da bagno per mostrare una virilità che non possiede… e così via.
 

Il lettore si meraviglierà di scoprire – nel senso di notarlo per la prima volta – che la vita quotidiana è fatta in gran parte di protesi. 

Ricordiamo che lo scopo dei fascicoli di Materiali, aldilà del sollazzo visivo, è fondamentalmente quello di estendere la conoscenza della letteratura dell’eros in generale. 

In La puttana artificiale si trovano innumerevoli materiali: testi, citazioni, slogan, poesie, voci di dizionari; riccamente illustrato con fotografie e immagini varie, tutte a colori. 

splendida serie di spin-off della rivista PHOTO, il celebre ed apprezzatissimo magazine che negli ultimi cinque lustri dello scorso millennio fu il riferimento per eccellenza degli appassionati e cultori di fotografia 

Photo Italia, che era la versione italiana della francese Photo, si occupava di fotografia nei suoi molteplici aspetti, dal fotogiornalismo alla fotografia d’avanguardia. Caratteristica della rivista era la pubblicazione di foto di nudo artistico in copertina.
 

ogni numero di questa sublime collezione di uscite extra è dedicato ad un suggestivo, affascinante ed ampio dossier iconografico su tematiche insolite, bizzarre e scabrose 

 

Materiali, collana di Fhototeca , Anno X, n.41, Luglio 1989, 100 pagine, brossurato, tutto a colori, formato cm.21,5×27
 

 

CONDIZIONI DELLA RIVISTA : OTTIME  

 

LEGENDA STATO DI CONSERVAZIONE 

condizioni ECCELLENTI (o anche EDICOLA e/o MAGAZZINO) = si intende un oggetto nuovo e perfetto oppure usato senza difetti e praticamente ancora come nuovo, tenendone per quest’ultimo caso in conto ovviamente la datazione ; corrisponde a un range di grading internazionale compreso tra 8,5 e 9,8 (non assegniamo punteggi superiori a 9,8 perchè trattasi di tipi ideali a ns avviso più teorici e scolastici che reali e concreti, ogni manufatto umano in natura ha una percentuale insita e congenita seppur infinitesimale di imperfezione) 

condizioni OTTIME = oggetto nuovo (o talora anche usato ma maneggiato e conservato con molta cura) in cui non si riscontra alcun difetto rilevante e degno di nota, tutt’al più qualche minimo segno di lettura o di uso ; corrisponde a un range di grading internazionale compreso tra 7 e 8,5 

condizioni BUONISSIME = oggetto usato (ed in taluni casi anche fondo di magazzino soggetto a piccole usure del tempo) con lievi imperfezioni e difetti poco vistosi, generalmente molto marginali ed appena percepibili ; corrisponde a un range di grading internazionale compreso tra 5,5 e 7 

condizioni MOLTO BUONE = oggetto usato con imperfezioni vistose e difetti abbastanza spiccati, pur se non completamente invalidanti (generalmente specificati nel dettaglio alla voce CONDIZIONI nella parte inferiore della descrizione di ogni singolo oggetto); corrisponde a un range di grading internazionale compreso tra 4 e 5,5 

condizioni PIU’ CHE BUONE / MEDIOCRI = oggetto usato con imperfezioni e difetti evidenti, smaccati, madornali ed invalidanti, assolutamente non collezionabile tuttavia idoneo per la semplice lettura o documentazione ; corrisponde a un range di grading internazionale inferiore a 4 

per eventuali ulteriori dettagli aggiuntivi e specifici si prega di fare sempre riferimento alla voce CONDIZIONI nella parte inferiore della descrizione di ogni singolo oggetto 

 

GLI IMPROBABILI MIRACOLI DI SANTA BLADINA 

 

Agli inizi della seconda metà degli anni ottanta, Bruno Vidoni si inventò una nuova devozione popolare, il cui centro di diffusione era la sua città natale. L’inesistente Santa Bladina da Cento era una santa verosimile, che avrebbe potuto realmente esistere, alla quale Vidoni attribuisce una biografia nutrita.  

Con questa operazione l’artista centese intendeva “verificare” alcuni meccanismi di diffusione della devozione e della credulità popolare. Allo scopo realizzò dapprima finti ex voto dipinti su tavole lignee, poi arricchì l’universo della Santa con finte icone, finte reliquie, finti santini e persino imbottigliò “vino miracoloso” con l’effige della Bladina sulle etichette delle bottiglie. 

Questo processo creativo appare oggi idealmente in debito con quello precocemente seguito da  Buzzati, che nel 1971 aveva pubblicato I miracoli di Val Morel, dove l’autore bellunese (che Vidoni apprezzava e conosceva come scrittore e come autore del Poema a Fumetti) aveva presentato una serie di deliziosi racconti verbo-visivi ispirati alla tradizione dei dipinti votivi. L’idea di utilizzare i linguaggi popolari degli ex voto per sperimentazioni artistiche concettuali “laiche” era però maturata a Vidoni senza una conoscenza diretta di questo volume. In maniera autonoma e seguendo strade differenti Vidoni giunse a intuizioni artistico-linguistiche simili a quelle buzzatiane,  

La finzione vidoniana, tuttavia, si spinse oltre: l’artista centese si inventò addirittura un paese, Santa Bladina, di cui la santa era patrona, collocandolo geograficamente nella provincia romagnola di Forlì, non distante da Bertinoro. Autoproclamatosi assessore alla cultura dell’inesistente cittadina, Vidoni riuscì in tale veste a farsi accreditare, nel 1989, agli Stati Generali degli assessorati italiani alla Cultura, che tenevano simposio nazionale a Ferrara. Assistette ai lavori, strinse relazioni e intrattenne gruppi di veri amministratori pubblici con performance verbali che raccontavano di strampalate iniziative messe in atto dalla “sua” amministrazione comunale per incrementare il turismo. Tutto questo accadeva un decennio prima che il comico e cabarettista Paolo Cevoli si inventasse i divertenti sproloqui “politichesi” del Palmiro Cangini, assessore dell’immaginario comune romagnolo di Roncofritto. 

In quello stesso anno la felice invenzione di Santa Bladina trovò un ulteriore sbocco. Sulle pagine di “Fhototeca”, rivista pensata da Ando Gilardi, in un numero monografico intitolato La puttana artificiale venne pubblicato La beata artificiale alternativa, ovvero il “primo romanzo alternativo sacro/erotico” di Vidoni, al quale si riconosceva “il merito della rivalutazione della Vita e delle Opere della Beata Bladina da Cento, poco nota al di fuori delle sue terre, dove peraltro ha operato diversi miracoli”. Alle false immagini devozionali erano abbinate altrettanto fasulle fotografie pseudo-ottocentesche da maison, realizzate dallo stesso Vidoni con la complicità di modelle amiche, affiancate da autentiche foto d’epoca (risalenti ai primi del Novecento), ovvero foto segnaletiche di degenti dell’Ospedale Psichiatrico di Ferrara. Il testo non era una semplice recensione delle immagini vidoniane: l’operazione, nel suo insieme, andava a costituire una ironica quanto provocatoria sperimentazione semantica e iconografica.  

 

Bruno Vidoni, Ex voto a Santa Bladina. Liberale Bosi salvato da una caduta domestica, circa 1988-1990 (Archivi Casa Vidoni)

Bruno Vidoni, Ex voto a Santa Bladina. Dirce Bosi salvata dalla gelosia omicida del marito, circa 1988-1990 (Archivi Casa Vidoni)

Bruno Vidoni, Ex voto a Santa Bladina. Giovanni Guerzoni mette in fuga un branco di cani famelici, 1988 (Collezione privata)

Bruno Vidoni, Ex voto a Santa Bladina. La popolazione di Casumaro liberata da una pestilenziale invasione di lumache, circa 1988-1990 (Archivi Casa Vidoni)

Bruno Vidoni, Ex voto a Santa Bladina. Aristeo Bosi scampato ad un incidente automobilistico, 1988 (Collocazione sconosciuta)

Bruno Vidoni, Santa Bladina sbranata dai leoni nella piazza di Cento, circa 1988-1990
(Archivi Casa Vidoni)

 

Diceva che è la fotografia che crea i fatti, così come il lettore del telegiornale crea le notizie. Aveva torto? Solo che lo diceva da Cento, provincia di Ferrara.

Vidoni3Se lo avesse detto da una cattedra della Sorbona o di San Diego (dove qualcuno lo diceva) lo avrebbero preso sul serio.

Continua ad essere un mistero, per me, l’ostracismo concorde e ferreo che ha tenuto fuori dalla storiografia e perfino dalla memoria della fotografia italiana un genio eccentrico come Bruno Vidoni.

Sì, gliene fece un po’ troppe, al sistema della fotografia, diciamo pure alla casta della fotografia, perché gliele perdonassero. Fu il terrore delle redazioni. Il rompiscatole del fotogiornalismo. Il Bertoldo (che era, guarda caso, un suo conterraneo) che mostrava il posteriore alla retorica del reporter. E fu tante altre cose.

Bruno Vidoni ha vissuto sotto lo stesso cielo basso che l’Ariosto fece scalare al suo Ippogrifo. Il suo nome è noto, ingiustamente, soprattutto per la efferata beffa che assieme ad Ando Gilardi giocò ai danni di Lanfranco Colombo e della sua impegnata rivista Il Diaframma (ve la racconto fra poco).

Vidoni è stato un artista, un pittore visionario, una meteora intellettuale precipitata nella provincia padana. Un operatore beffardo della disillusione, uno smascheratore omeopatico della credulità. Un decostruzionista dei contesti di senso. Sulla stessa linea di Joan Fontcuberta, con lo stesso spirito e gli stessi metodi. Ma almeno quindici se non venti anni prima di lui.

Era il 1969 quando combinò la prima marachella mediatica. Trafficava con le fotografie. Bazzicava i circoli fotoamatoriali. Mandò a un concorso un reportage strepitoso. Sulla corrida, nella Spagna ancora franchista.

Vidoni2Aveva seguito la giornata del toreador, la vestizione, il brindisi gli amici, il raccoglimento in preghiera, il trionfo tra nacchere e flamenco. Nello stile dello Spanish Village di W. Eugene Smith. Vinse il primo premio di una mostra nazionale di arte fotografica.

Non c’era nulla di vero. A parte qualche paesaggio recuperato da un suo vecchio viaggio in Spagna, tutte le scene erano state riprese nell’osteria Da Encio, a Cento. Costumi approssimativi e amici complici.

Come avrebbe sempre fatto in seguito, ci mise qualche indizio di falsificazione che avrebbe dovuto insospettire un buon conoscitore di immagini: il finto torero, per dire, prega davanti a incongrue icone bizantine.

La strada di Vidoni, così iniziata, non poteva non incrociare quella altrettanto beffarda e divergente di un altro gianburrasca della fotografia italiana: Ando Gilardi.

Che allora dirigeva Photo13, forse una delle riviste più anomale dell’editoria fotografica nazionale. E aveva anche lui inventato un fotografo inesistente, Shinzo Tamura, dedito però a esperimenti formali e concettuali.

Su quelle pagine Gilardi gli pubblicò la seconda beffa, nel numero di novembre del 1971. Un reportage “Dalla zona del fuoco di paglia”, un fenomenale racconto fra i marine americani in Cambogia, e con quel titolo ci voleva poco per sentire odor di bruciato.

Un reportage che aveva però ingannato, anche questa volta, alcuni giurati di concorso e curatori di mostre. Fantastiche quelle foto. Il marine che sfoglia il paginone di Playboy fregandosene del cadavere che galleggia nell’acquitrino. E fa pure ok col dito. Fantastico.

Vidoni1Ma sulla rivista non c’era nessuna intenzione di ingannare il lettore. Era tutto spiegato. Che Vidoni aveva simulato tutto sugli argini del fiume Reno, per un giorno promossi a foresta pluviale indocinese, assieme ai soliti amici, qualche po’ di sartoria teatrale, facce truci e molte risate.

Questa volta era davvero un “falso contestuale” alla Fontcuberta. Vidoni non si era limitato a organizzare sedute di posa nello stile dei più duri reporter dal Vietnam , tipo Larry Burrows. Aveva fabbricato false didascalie in inglese, dattiloscritte stile telex su veline appiccicate alle stampe, come era d’uso a quell’epoca nelle agenzie internazionali.

Nessun inganno, ma la dimostrazione alla luce del sole che possono essere fabbricati anche “dietro casa, una domenica d’agosto, i simboli ottici della guerra in Cambogia”, e che “qualcuno è più vero dei reali, e molti dei reali sono più falsi dei mimi”, parole di Gilardi.

Il reportage fu poi esposto a Cento. Dove, secondo i ricordi di Marina Ferriani, vedova e oggi custode e curatrice amorosa del lascito del marito, fu visto da Lanfranco Colombo, all’epoca il supremo giudice del fotografico in Italia: come titolare della prima galleria dedicata esclusivamente alla fotografia, Il Diaframma di Milano, e direttore di Il Diaframma – Fotografia italiana, rivista che teneva alta la bandiera della fotografia concerned, umanistica e impegnata.

Pare che tra Gilardi e Colombo, fratelli coltelli, sorgesse una discussione sulla possibilità che quelle foto fossero prese per vere da qualche editore o direttore o curatore. Colombo negò recisamente. E qui maturò, pare, la beffa.

vidoni2Nel 1973, alla redazione di Il Diaframma arriva una busta dall’Inghilterra (con francobolli e mittente, tutto regolare). La spediva un tale Roger Walker, fotografo sconosciuto ma evidentemente di enorme talento, visto che le foto che proponeva, un reportage sugli scontri in Irlanda del Nord fra esercito britannico, cattolici e protestanti, erano di una qualità giornalistica ed estetica fenomenale, degne di un Don McCullin, e il loro autore doveva avere avuto un coraggio sovrumano per gettarsi, armato di grandangolo, proprio in mezzo alle sparatorie e alle mazzate.

Il reportage fu pubblicato nel numero di aprile, sotto il titolo “L’odio brucia l’Irlanda”. In giugno, con un commento ferocemente impietoso e irridente sulla “professionalità” del rivale, Photo13 svelò la beffa. Sì, era ancora Vidoni, erano ancora i suoi amici bardati alla meglio, era un vicolo di Cento (non della Bovisa, come erroneamente scrisse Gilardi).

Anche questa volta, Vidoni aveva disseminato il reportage di indizi che avrebbero dovuto insospettire. Una vecchia Seicento parcheggiata nelle strade di Belfast? Possibile, ma improbabile. La targa “Whidony Street”? Non c’era ancora Google Maps, ma una controllatina magari.

Colombo la prese male, Come poteva, diversamente? “Di noi i lettori possono pensare che siamo stati ingenui”, ammise in un editoriale, “in chi sbava puerili insulti, che fiducia possono riporre?”.

La polemica su quello che era ormai il “caso Walker” proseguì ancora per qualche numero. In agosto, su Photo13, Gilardi insisteva ancora, con foga postmodernista degna di un Baudrillard, sulla ormai definitiva trasformazione della realtà in simulacro: “La fotografia non documenta niente: almeno da sola. […] La prima volta furono documenti, poi documenti di documenti, poi sono diventati dei simboli di documenti: e il reale si è allontanato da essi […]. Anche perché di immagini false non ce ne possono essere. E non ce ne possono essere perché reali lo sono tutte, ma vere forse nessuna”.

Lo scontro fra titani infiammò per qualche tempo l’atmosfera sonnolenta della fotografia italiana. I fotografi più anziani ancora lo ricordano. Al di là di rivalità e scontri personali, era comunque scosso alla radice il dogma della veridicità fotogiornalistica. Poco prima della sua scomparsa, ebbi modo di ricordare a Colombo quella beffa. Sorrise accomodante, disse di aver perdonato Gilardi e Vidoni da molto tempo, e che in fondo era stata una bella zuffa.

Molti anni più tardi, nel 1984, Vidoni tornò sul luogo del delitto, il falso verosimile, con un reportage straordinario, e ovviamente recitato, sull’argomento più scottante del momento: il terrorismo.

La nuova sequenza fotografica mostrava la misteriosa militante armata Arianna mentre acquista armi e si addestra assieme a guerriglieri mediorientali – con tanto di cattura e uccisione di una spia infiltrata. Non era più aria per questi esperimenti. Il falso d’autore non fu mai pubblicato.

Del resto, Vidoni stesso si era sentito un po’ stretto nella sola parte del falsario ai sali d’argento. Si riteneva, ed era, un artista molto più versatile ed eclettico. Un esploratore dei linguaggi iconici, il ritratto, l’icona, il fumetto, il fotoromanzo, la stampa devozionale.

Vidoni4L’invenzione di Santa Bladina da Cento, ad esempio, con tutti i suoi ex voto dimostra che il centro di interesse di Vidoni non era tanto e solo il verosimile come trabocchetto in cui far cadere il vero.

Era piuttosto l’iconico, cioè il programmaticamente finto, come forma della realtà, che in migliaia di anni di familiarità con l’immagine ha costruito una realtà interiore, una realtà dell’immaginario, che pretende i propri diritti e li riscuote in termini di devozione, di fedeltà quasi religiosa alle immagini.

Quando siamo costretti a scegliere fra i sensi e le immagini, non sempre crediamo ai sensi, perché di immagini abbiamo bisogno, sono le immagini che costruiscono per noi il mondo, sono le immagini che costruendo la nostra esperienza del mondo ci salvano dai pericoli del mondo.

Vidoni5Anche questa che riponiamo nelle immagini, ovviamente, è una sicurezza fragile, e Vidoni non casca certo nel suo stesso gioco, infatti prende in giro anche se stesso come fabbricante di immagini salvifiche, in una mostra che si intitolò significativamente “Sogno e fotografia”, e prima ancora in una serie uscita ancora su Photo13, dove proponeva ai lettori un metodo per vincere al lotto giocando i numeri corrispondenti ai significati reconditi delle sue fotografie più oniriche.

Vidoni insomma non è stato solo un provocatore mediatico. È stato un visionario che ha esplorato la zona crepuscolare fra il sogno e la realtà, e dal momento che stiamo parlando di un autore della grande pianura padana, la definirei la zona della nebbia…

 

 

 

 

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